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giovedì 24 gennaio 2008

Castello di carte

Era davvero improbabile che le prime interpretazioni ufficiali dell’Art. 3, c. 76, L. 24 dicembre 2007, n. 244 (Finanziaria 2008) potessero sovvertire il senso letterale di un testo stringato ma limpido. In quella norma si introduce una modifica salatissima all’Art. 7, D.Lgs. n. 165/2001, attribuendo agli enti la facoltà di avvalersi di prestazioni professionali di alta specializzazione solo quando il candidato è in possesso di una “comprovata specializzazione universitaria”. Si tratta, non c’è dubbio, di una delle novità più limitanti di una manovra che, sul personale, agli enti locali ha concesso quasi niente. La ratio della norma, la necessità di ricorrere a soggetti esterni per lo svolgimento di funzioni istituzionali solo quando sia strettamente necessario, ha un ovvio fondamento logico. Peraltro, più la leggiamo e più non comprendiamo la testardaggine di chi ha deciso di introdurla. Si tratta di un ritornello che, senza volerlo, fischiettiamo da settimane: il legislatore, per pigrizia o per convinzione (entrambe ingiustificabili) non propone alcuna distinzione fra comuni di 500 abitanti e città di milioni. Proprio su una materia che, al contrario, avrebbe bisogno come l’aria di distinguo. Come paragonare, infatti, la situazione dei micro-enti i quali, ad esempio, non hanno risorse per assumere in via definitiva un tecnico comunale e si affidano a un geometra esterno che sbriga le pratiche necessarie alla metà (o meno) del costo di un C1, a quella di macro-enti con piante organiche ampie e articolate nelle quali è più che probabile si annidino professionalità adeguate a ricoprire ruoli anche di alta specializzazione e che dunque se devono comunque avvalersi temporaneamente di cervelloni possono ben rivolgersi a chi possiede lauree o master. Si tratta di una banale constatazione, ma l’ordinaria indifferenza di chi scrive i testi normativi ai problemi operativi di coloro che stanno quotidianamente nelle trincee amministrative è lì a dimostrare che all’ovvio non si accompagna necessariamente il buon senso. E così anche la prima vera voce ministeriale a commento del comma 76 non può che accodarsi al modello base e, purtroppo, confermare l’inevitabile conclusione. C’è, a contorno della vicenda, anche un lato ironico, quasi una beffa, se volete. A sottoporre il quesito, infatti, è niente meno che Italia Lavoro Spa, cioè l’agenzia del Ministero del Lavoro che ha come missione istituzionale la promozione di iniziative per favorire l’occupazione e l’inclusione sociale, anche in collaborazione con le autonomie locali. Insomma, l’inquilino del piano di sopra vorrebbe tanto installare un’antenna parabolica sul balcone, ma l’amministratore del condominio non lo autorizza. L’UPPA risponde così all’agenzia che aveva mestamente chiesto lumi, sperando ovviamente in qualche timido spiraglio attraverso il quale far filtrare un po’ di personale. Il risultato, tra l’altro, è addirittura più pessimistico del previsto. La mannaia della Funzione pubblica, infatti, cala presto a mozzare le residue speranze che, almeno, ci si possa avvalere della competenza di chi ha acquisito una laurea breve. Per l’Ufficio di Verbaro, utilizzare quell’espressione significa infatti per il legislatore che il "requisito minimo necessario" per aspirare a un incarico ex art. 7 è il possesso della “laurea magistrale o del titolo equivalente”. Certo, l’UPPA interpreta e dunque non può innalzare il proprio pensiero oltre la soglia dell’opinione, benché autorevole. Ma l’opinione si fa ancor più incisiva immediatamente dopo. In realtà, anche il laureato cum laude fresco di Bocconi non potrà accedere a succosi contratti di consulenza, poiché, si dice nel parere, l’analisi dei requisiti previsti dalla legge (competenze particolari, procedure comparative per attuare la scelta, ecc.) portano ad una sola conclusione: “la necessità di reperire collaboratori che operano da tempo nel settore di interesse.” Addio, dunque, sogni di gloria, per la legione di ex studenti a caccia di un prestigioso posto al sole. Sarebbe, comunque, il male minore, se l’impedimento fosse demograficamente graduato. A niente, infine, vale affermare come fa l’UPPA che la stretta sul lavoro flessibile non riguarda gli incarichi di lavoro autonomo. Lapalissiano come sempre, il Ministero finge di non accorgersi che, con un limite così stringente in ingresso, l’importanza di non essere soggetti a un vincolo temporale in uscita tende inesorabilmente a zero.

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